In quel tempo era ancora vivo
il piccolo Tonino nella casa
alta sul cavalcavia.
Io la vedevo, la casa, dall'autostrada,
ignorando te e lui: non mi balzava
il cuore come adesso. L'ignoranza
mia occultava l'avvenire, il fil-
di-ferro del domani, là giunti, si troncava.
V'entrai molti anni dopo
(il bimbo era morto da tanto,
sussurrando "mi duole per te, mamma"),
conobbi l'orto, il giardiniere, il tuo
boudoir di diciottenne, disammobiliato,
l'impronta appena visibile di un cerchio sul muro - lo specchio -,
e non potevo parlare. Tra quelle stanze
una parte alitante di te mi bastava.
Il trillo del tuo cardellino più tardi si spense
all'ombra del giglio rosso da me lasciato.
Famelico delle tue tracce mi affaccio su rettangoli
di verze, su cespugli di dalie impolverate,
e il vecchio custode mi segue, più inebetito di me
nei corridoi, nel solaio mentre dal basso giunge
un crepitare isocrono di macchine,
ma non bava d'aria nell'afa.
Così i destini si annodano, mia tigre, e intanto tu
dietro le lenti affumicate spii
nugoli pigri e sull'Olona putrido
l'efflorescenza dei disinfettanti.
Si snodano i destini. Mai da me intraveduta,
la tua casa friulana ora s'allarga
nel desiderio, l'aia dove incontro al futuro
irruppe la tua infanzia, e già volava.